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NOÈ BORDIGNON (Castelfranco Veneto, 1841 – San Zenone degli Ezzelini, 1920), Tesoro di mamma e papà, databile attorno al 1880, olio su tavola, cm 43 x 32 (opera non più disponibile).

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Nosotros compramos pinturas de Noé Bordignon, Teodoro Wolf Ferrari, etc.

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NOÈ BORDIGNON (Castelfranco Veneto, 1841 – San Zenone degli Ezzelini, 1920), Tesoro di mamma e papà, databile attorno al 1880

Dopo la conclusione degli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Noè Bordignon ottenne una borsa di studio governativa per il perfezionamento artistico che gli valse un pensionato triennale a Roma (tra 1871 e il 1874). Il viaggio di studio di Bordignon Noè nella città eterna (dove tornò in più riprese anche negli anni successivi) rappresentò un momento fondamentale non solo di questi suoi primi anni d’attività, ma per la sua intera carriera d’artista. Infatti, in un certo senso come fu per Tiziano, quando tre secoli prima se ne andò nell’Urbe ospite di papa Paolo III Farnese a “esaurire” la sua cosiddetta “crisi manieristica” per poter finalmente reinventare il colore della pittura veneta, anche per Noè Bordignon questo lungo soggiorno a Roma (non senza rapporti con la pittura napoletana e con l’ambiente artistico toscano e dei Macchiaioli) rappresentò l’occasione di vedere, conoscere e studiare l’arte allora più in voga del Romanticismo italiano, con una particolare attenzione verso Puristi e Nazzareni, e un passato artistico-culturale straordinario, che spaziava dall’antichità per antonomasia al Rinascimento di Michelangelo e di Raffaello, dal realismo di Caravaggio al classicismo dei Carracci, di Reni e di Poussin, dal trionfo del Barocco e di Bernini all’ambiente dell'Accademia di Francia e delle schiere dei pensionanti francesi al Prix de Rome, da David a Ingres. Un universo figurativo, insomma, che permise a N. Bordignon di dar sfogo a un apprendimento pittorico dal quale, gradualmente, come fu per il cadorino, ritornerà a sentirsi e a voler essere pienamente veneto, nel colore e nella composizione. L’arte, da sempre, rivela figurativamente e qualitativamente la sintesi dell’epoca in cui si esprime, della sua cultura, della sua storia, della sua società. Quando l’Italia (e quindi i suoi stati e le relative capitali) era al centro del mondo, la sua arte era universale; quando le capitali della contemporaneità dall’allora furono spostate altrove, la nostra arte non poté che esprimere la situazione culturale, storica e sociale di un’area che era stata costretta a divenire provincia. L’Unità d’Italia, nel suo intento di “omogeneizzare” un territorio da secoli unito culturalmente ma da secoli diviso politicamente in stati, generò la reazione opposta d’accentuare, artisticamente e non solo, le divisioni “regionali” della penisola. Si formarono ben presto le “scuole” veneta, lombarda, piemontese, toscana, napoletana e così via. Il dialogo e lo scambio d’influenze e di reciproche esperienze interregionali furono subito intensi, come intensi furono in passato i dialoghi, gli scambi d’influenze e di reciproche esperienze tra stato e stato della penisola; sempre, nell’Ottocento e nei secoli precedenti, tutto questo avvenne anche, sebbene in grado minore, con gli stati d’oltralpe. L’unica vera grande differenza tra quanto successe nel XIX secolo e quanto successe nei secoli precedenti, mutatis mutandis, fu il trasferimento delle capitali dall’Italia all’estero, causato proprio dall’illusione di dare una capitale (Torino, Firenze e quindi Roma) a uno stato unitario ancora bel lungi da venire. Per Venezia e il suo territorio questo avvenne con uno sconvolgimento traumatico che portò, negli ultimi decenni dell’Ottocento, una situazione economico-sociale per i più disastrosa. Tuttavia, in un contesto di graduali, ma continue e profonde mutazioni tanto nei ceti abbienti (dove l’aristocrazia s’andava sempre più mescolando alla nuova ricca borghesia) quanto negli strati più poveri della popolazione, tra le diverse classi sociali, e soprattutto proprio nel nostro entroterra più che nelle città, sovente continuò a regnare quello stato di armonia e rispetto che aveva caratterizzato per tanti secoli una fruttuosa convivenza all’interno dei confini della Serenissima. È indubbio che, a tal proposito, un ruolo determinante fu svolto anche dalla cultura cristiano-cattolica, che da noi trovò i suoi culmini prima con la Rerum Novarum dell'enciclica del 1891 di Leone XIII, che fondò le basi della moderna dottrina sociale cristiana, poi con l’”apostolato” di Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia prima (dal 1893) e poi papa Pio X (dal 1903). A tutto questo Noè Bordignon non solo non fu indifferente ma, con la sua arte, vi partecipò con un trasporto innato capace di conferire alla sua pittura un marcato senso di genuinità assente, talvolta, anche nelle opere maggiori di artisti a tutt’oggi di lui ben più noti: l’autentica vocazione di Noè Bordignon e la sua fede cristiano-cattolica nella quale fu stato cresciuto e educato, e che mai, in tutta la sua vita e in tutta la sua carriera artistica, rinnegherà, renderanno tanto più forti le sue convinzioni a tal riguardo che, quando sarà costretto ad abbandonare Venezia per non voler aderire alle elitarie logiche massoniche, si ritirerà con grande dignità cristiana nei suoi luoghi natii, diventando ancor più uno dei massimi interpreti della realtà socio-rurale del nostro entroterra, proprio perché questa sarà sentita e vissuta anche nella convinzione della fede cristiano-cattolica. In questo ambiente culturale, e sociale, si colloca quindi l’”avventura” artistica di Noè Bordignon il quale, di tutto ciò, ne era pienamente cosciente, vivendolo in prima persona molto più a fondo di tanti altri suoi colleghi pittori. L’entroterra veneto per Guglielmo Ciardi, Alessandro Milesi, Luigi Nono e tanti dei più bei nomi della nostra pittura della seconda metà del secolo, che l’hanno “ritratto” sotto mille angolature, alla fine, per loro, rimaneva un universo al quale in realtà, da pittori “di città”, non appartenevano. Il loro soggiornare nell’entroterra veneto, pur con l’esplicito intento di dipingerlo, era come se conservasse il sapore di una parte di quella villeggiatura che gli aristocratici e i signori di tempi più antichi usavano trascorrere in determinate stagioni con l’intento di svagarsi e al tempo stesso di curare i loro interessi di “Stato da terra”. Tutto quanto gli altri pittori venivano a scoprire nella campagna veneta per ispirare le loro composizioni, quasi fossero dei turisti di passaggio perché la loro vera vita era altrove, per Bordignon Noè, invece, rappresentava un vissuto quotidiano profondamente amato perché era il suo, perché rappresentava il mondo a cui egli apparteneva e di cui egli era parte integrante. A tal proposito verrebbe anche da chiedersi se quelle diatribe e quegli scontri avuti a un certo momento con l’ambiente artistico lagunare che hanno fatto tanto soffrire Noè Bordignon al punto da scrivere, ad esempio, che la sua Pappa al fogo, capolavoro dipinto appositamente per essere esposto alla prima Biennale veneziana del 1895, fu «barbaramente respinta» e che lo porteranno gradualmente a ritirarsi da Venezia nella sua amata terraferma, lontano da polemiche, invidie e gelosie, non siano state, contrariamente a quel che si suol pensare, alla base della sua vera fortuna artistica, quella che fece di lui forse il più acuto e sensibile rappresentante della cultura artistica del nostro entroterra a cavallo dei due secoli. Bordignon N. non poté più sottrarsi dal contemplare con partecipato trasporto la quotidianità della vita della sua gente e della sua terra, al punto d’arrivare a trasferirne sulla tela l’animo più genuino e l’emozione più veritiera di quell’epoca, di quella società e del suo ambiente paesaggistico e umano, divenendo così quel cantore altissimo di una realtà che fu sentita, partecipata e amata da dentro, e che fu vissuta e, soprattutto, capita con una comprensione tale come forse solo Jacopo Bassano, prima di lui, da noi, seppe fare. Nel dipinto Tesoro di mamma e papà che qui è preso in esame, verosimilmente dipinto attorno al 1880, vale a dire nel pieno ormai della sua maturità artistica, Noè Bordignon affronta, nella più genuina ispirazione di quanto s’è appena detto, uno dei temi a lui più cari; uno dei temi che fu tra i più importanti, se non il più importante, di tutta la sua poetica figurativa pluridecennale, nel quale riversò non solo quel sentimento di testimonianza di realtà e di condizione sociale, bensì anche quel senso di dignità cristiana del ruolo della famiglia quale cardine insostituibile della qualità morale della sua terra. E questo della famiglia, fu un tema trattato con tanta profondità da trasformarlo, per sottili ma esplicite allusioni, per ciò che di sacrale realmente rappresentava per la società dei suoi tempi: la laicità della scena effigiata tanto spesso è travolta, com’è anche nel nostro dipinto, da una tale genuina spiritualità che la tematica affrontata può sovente ben essere letta nel senso religioso di una vera e propria Sacra Famiglia (<<presepio laico>> fu giustamente definita da Paolo Rizzi La pappa al fogo di Noè Bordignon). La genesi di uno dei più alti capolavori della pittura veneta di fine secolo, qual è l’appena citata La pappa al fogo, deve essere intesa pure attraverso la maturazione avvenuta su questa tematica della “sacralità” della famiglia per mezzo di opere delle quali, appunto, fa parte integrante anche la nostra tavola di Tesoro di mamma e papà. All’interno di un ambiente aristocratico, forse una sala che, per quel senso di genuinità campagnola che caratterizza proprio l’atteggiarsi degli effigiati, spinge a collocarla negli spazi di un palazzo o di una villa del nostro entroterra piuttosto che di una dimora veneziana, città dove l’artista in quegli anni pure aveva lo studio, si svolge la scena di intima quotidianità della madre col figlioletto in braccio che lo presenta alla gioia del padre appena rientrato. L’impianto compositivo del dipinto tradisce uno studio della messa in posa dei personaggi, che forse gli è stata richiesta dai committenti, ma, nonostante questo, non vi è alcuna teatralità di ricercatezza o forzatura mondano-edonistica, quanto, semmai, la volontà di cogliere visivamente la veridicità dei sentimenti di quel momento felice; di coglierne il sentimento puro, sacrale, appunto, di uno stato d’animo così sentito da presentarcelo in una veste che suscita quasi un’impressione di religioso rispetto. Perno dell’opera, cromaticamente e compositivamente, è il bambino con la sua veste bianca, il nastro azzurro e la cuffietta che, come una raggiera di luce o un’aureola di candore, fa del visetto paffutello e rosato il punto di convergenza della struttura architettonica dell’opera. Come in un’istantanea ben studiata, la scena c’è presentata da Noè Bordignon con naturalezza, raccontandoci la posizione sociale dei personaggi ritratti, la loro agiatezza e la loro educazione, ma raccontandoci anche i sentimenti sinceri del loro amore, l’integrità morale del loro carattere, della loro coscienza, la saldezza e la solidità della loro quotidianità che si regge sui valori della sacralità della famiglia e sul futuro di questi ideali, rappresentato proprio dal figlioletto che, quindi, non solo compositivamente ma anche idealmente si fa perno della struttura architettonica dell’opera. Se il bastone e il cappello appoggiati sulla seggiola a sinistra ci fanno sapere che il padre è appena arrivato, il cane a destra, da sempre in pittura simbolo della fedeltà, ci sottolinea di che natura sia il loro amore, così come la fiammella della candela poco più su, davanti, non a caso, a un vaso di fiori, si fa allusione sottile al fuoco che accende i loro cuori e, al contempo, alla fragilità di una “magica” sicurezza che i casi della vita, se non affrontati con la dovuta accuratezza e moralità, possono distruggere. Là dove però Noè Bordignon sa trasformare tutto questo “racconto” in poesia è proprio nel colore, nelle tonalità con cui è accostato, nella pastosità del pigmento pittorico, là più densa qua più diafana, nella vibrazione cromatica che il tocco sicuro e sciolto del pennello sa conferire a un incarnato in luce, a un particolare in ombra o, con magistrale bravura, ai tessuti della veste del bambino, degli abiti della donna, delle decorazioni del pavimento, esempi straordinari di una cultura figurativa prettamente veneta che trova le sue origini più antiche nella gloriosa tradizione coloristica di un Tiziano o, una volta ancora, di un Jacopo Bassano.

 

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Per ricerche in corso, si invitano i possessori di opere e documenti di artisti di Castelfranco Veneto ed attivi in città a contattare lo Studio.

STUDIO MONDI DIPINTI ANTICHI E MODERNI, dott. FABIO MONDI (dipinti antichi), dott. MARCO MONDI (dipinti moderni), Galleria d'arte, antichità ed antiquariato, Corso XXIX Aprile, 7, 31033 Castelfranco Veneto (TV)   Italia, tel. 0423/723110, 347/8158124, fax 0423/723110, P.I. 03338920261 – R.I. TV 26460/1998 – R.E.A. 264519, ore: 10.00 - 12.30, 16.00 - 19.30, chiuso domenica e lunedì mattina, www.studiomondi.it - e-mail: studiomondi@tiscalinet.it - E' iscritto all'Associazione Trevigiana Antiquari.

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Lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni, galleria d’arte ed antiquariato di Castelfranco Veneto, propone in vendita dipinti antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e dipinti moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900) con particolare attenzione per i pittori veneti e, soprattutto, per i pittori veneti legati al territorio di Castelfranco Veneto. Tra questi, artisti come Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, sono quelli di cui lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni principalmente s’interessa. Pur non trattando prevalentemente arte contemporanea, lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni acquista e vende anche quadri di pittori contemporanei legati al territorio di Castelfranco Veneto, come, ad esempio, Giorgio Dario Paolucci. Pertanto, cerca e compra opere di Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, Giorgio Dario Paolucci, oltre, ovviamente a quadri di pittori antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e di pittori moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900).

 

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